Para paraa Vanni

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E Vanni, tredici - quattordici anni, correva come un ossesso per ricondurre al branco la giovenca. Una storta gli tolse lo slancio atterrandolo e lo fece imprecare:
«Minchia massaru Cristoforo.»
    La giovenca con la coda a pennacchio galoppava sfrenata alla ricerca di ombra o di un grosso cespuglio per sfuggire al pungiglione sadico di un sorta di tafano tze-tze del mese di maggio, che trasforma in pericolosi kamikaze questi quadrupedi placidi e sornioni.

    Si alzò ammaccato e zoppicante.  
    Massaro Cristoforo o Cristoforone, come tutti lo chiamavano in assenza, gli  fece cenno di avvicinarsi.
    Quando gli fu davanti scorse che le scarpe “avevano fame”, le punte aperte come bocche sdentate in attesa di cibo. Forse il ragazzo era inciampato per questo.

    Lo lasciò stendere al suolo, gli afferrò il piede, lo tastò e glielo storse su misura facendolo imprecare una seconda volta. Poi gli disse di alzarsi.
«Fa ancora male?»
«No!», fece Vanni contento e bilanciandosi.
«Ora girati.»

    Il ragazzo girò le terga e gli arrivò una pedata in culo, non troppo forte, che se fosse stata vera sarebbe volato.
«Ehi! Cosa ho fatto?»
«Tu minchia a massaru Cristoforo non lo devi dire mai. E domani infila le scarpe nuove. Queste buttale.»

    Era fatto così massaru Cristoforo. Una manata era una mazza da cinquanta chili che si abbatteva e se era adirato, la distanza di sicurezza, agile come una lepre, era un miglio. Ma allora gliel’avevano fatta veramente grossa. Eppure, cosciente di sé, mani addosso a qualcuno non ne aveva mai messe, ma strizza tanta e tanta.

    Donne nella sua vita non ce n’erano state. Le sole femmine che  potevano vantarsi di avergli leccato la barba erano le mucche,  quando odorava di foraggio.  Rischiava la rasatura dalla loro lingua ruvida come la raspa per ferraglia arrugginita.
    Lui con i bovini era un mago.
    A ognuna una carezza, una grattatina tra le corna, una pacca leggera, le accollava, le chiamava tutte per nome e loro, appena lo scorgevano nel prato, in tante, la testa alta, le orecchie tese, gli andavano a dare il benvenuto.

    Vanni c’era capitato per caso due anni prima.
    Quando aveva mosso i primi passi, sua madre era stata abbandonata dal fannullone tutto aria e niente sostanza con cui era andata in orizzontale e, povera in canna, faceva come tutte le madri, il possibile e  l’impossibile per allevare il figlio.
    Andava per le campagne accompagnata dal marmocchio, e si prestava a tutti i lavori, a mettere ordine nei pagliericci abbandonati, fare pulizie, cucinare un buon  piatto a quei cavernicoli che vivevano all’ombra delle frasche, e sfamare se stessa.

    Cristoforo non era un cavernicolo ma, per certi versi, peggio.
    Aveva adocchiato il monello sempre in movimento, occhio vigile che non si lasciava sfuggire nulla e aveva proposto alla donna di prenderlo con sé:
«Basta che non me lo maltrattate.», aveva detto lei con un filo di voce.
«Se non fa lo scavezzacollo non ha nulla da temere. Io non maltratto manco le bestie. E parola di Cristoforo, so come compensare te e lui.»

    Lui stesso rimasto orfano adolescente, sapeva bene quello che aveva vissuto. Meno male che aveva potuto contare su massaru Peppe: vecchio allevatore di stampo antico che ormai si limitava a dispensare qualche consiglio a chi glielo chiedeva e a osservare gli armenti  di cui si occupavano i figli, a parte uno avvocato.

    E il giovane Cristoforo oltre ad ascoltare attento quello che massaru Peppe gli diceva, aveva un dono innato quando si trattava di scoprire le qualità di un bovino, un equino o qualsiasi altro animale con quattro zampe, senza escludere i pennuti.
    Le mucche di Cristoforo erano uniche e i vitelli tutti perfetti. I contadini non parlavano se non di Cristoforo e dei suoi allevamenti che ammiravano e, senza cattiveria, invidiavano.

    C’era un ma.
    Costretto a disfarsi dei maschi o di qualche femmina non c’era verso di farglieli vendere. Odiava i soldi (la carta straccia, come li chiamava) e trafficava solo in natura. Un vitellone: fieno, vino, olio, carne secca,  diritti di pascolo per  gli altri animali.  
    Per una mucca,  che fra l’altro separarsene era una tragedia: granoturco, fave, farinacei, erba medica e un pascolo per almeno tre anni per il resto del bestiame. L’operazione era un groviglio inestricabile e la sopportavano perché si trattava di animali esclusivi.

    Di questo passo, l’allevamento s’ingrossava e occupava i terreni fino a quando non ce ne furono più disponibili nel raggio di qualche chilometro.
    Il branco bovino contava quasi cento capi a cui si aggiungeva un grosso gregge di pecore e capre.

    Ci volle tutta la diplomazia di massaru Peppe e del figlio avvocato per fargli smettere di scuoiare le carcasse delle mucche morte di vecchiaia che poi bruciava. Rischiava grosso ed era impensabile da quando aveva dovuto mettere gli orecchini a tutte.
    L’ampio solaio dove erano appese in bell’ordine le cuoia del passato con gravato a fuoco il nome delle scomparse, era saturo.
    Il compromesso o stratagemma lo trovò l’avvocato. Loro studiano anni proprio per questo.

«Massaro Cristoforo!»

«Avvocato, mi siete stato raccomandato da vostro padre e potete chiamarmi Cristoforo. Potete anche darmi del tu.»

«No, Cristoforo! Quando vi separate da un capo di bestiame, scrivetemi su un foglio il valore in natura convenuto e il nome dell’animale.  Per il resto me ne occupo io.  Voi tenete in una cassetta i fogli datati che firmerò  facendo copia per me. Quando avrete bisogno chiedete e io vi  procurerò quello che vi serve prendendo nota: metà Principessa (nome per esempio della mucca venduta) per questo o talaltro acquisto, tassa da pagare, vino per la botte, olio, affitto di pascoli eccetera.»

    L’avvocato che, oltre a essere un galantuomo, non immaginava manco lontanamente prendersi di becco con Cristoforo, a fine anno o durante, si faceva pagare con tot formaggio, agnelloni, frutta di stagione, legumi dall’orto, quantità che Cristoforo non discuteva e non lesinava elargizioni in tal senso.
    Se qualcuno poi aveva proprio voglia  di scontrarsi con un Cristoforo convinto di essere nel giusto, si candidava al suicidio.
    Era veramente un san Cristoforo.
    Vederlo zappare o eseguire altri lavori manuali faceva paura. Estate e inverno, o freddo tagliente o calura asfissiante non si fermava mai.

    Giovanottone, nel branco bovino aveva un riproduttore allevato per la perfetta morfologia. Le sue erano sempre scelte azzeccate. Il branco nel prato, attraversandolo, il toro, soggetto sui sei, sette quintali si sente infastidito e lo carica.
    Riesce a evitarlo e agile come una saetta, grazie alle mucche, gli si porta dietro e gli acchiappa i coglioni. Il toro si dibatte, scalcia,  rotea a destra e a sinistra per beccare quel malcreato. Cristoforo non molla, si lascia trascinare e stringe sempre di più.
    
    Quando la bestia si vede nell’impossibilità di liberarsene, fa sua l’ultima soluzione comune a tutti gli esseri in pericolo: fuggire.
     Si dà al galoppo  goffo con la coda in aria ma Cristoforo non molla e si lascia trainare. Superato un buon centinaio di metri  ecco il muro del prato. L’animale pensa scavalcarlo.

    Lo slancio glielo avrebbe permesso se non avesse avuto un quintale e mezzo appeso  tra le gambe e così rimane in bilico con gli arti anteriori sul muro e i posteriori sospesi, le palle in mano a Cristoforo che stringe e tira e si prende addosso una bella smerdata dal bestione che si dà vinto. Poi tirandolo per le gonadi lo trascina giù lasciando rovinare anche il muro a secco.

    Il toro si accascia al suolo, ansante estrae la lingua con il classico muggito di resa, lui, torcendogli la coda, con il pennacchio si leva la merda del viso e il sovrappiù che impregna la barba, gli assesta una gran pedata sulle palle e lo lascia.
    Il bovino dopo parecchi secondi si alza frastornato, scuote le orecchie e trotterellando di sghimbescio,  attento a non essere seguito, va a raggiungere le mucche che guardavano curiose. Da quel momento appena scorgeva Cristoforo, cercava protezione in mezzo alle femmine.
    La scena, osservata da alcuni contadini, fece il giro delle contrade.

    Un’altra cosa che lo faceva uscire dai gangheri era sentirsi sviolinato.
    Che lo chiamassero Cristoforo o massaru Cristoforo ma sentirsi chiamare don Cristoforo, lui semplice contadino, lo mandava in bestia.
    Avvenne che a quattro tra acquirenti e mediatori,  ritenuti farfalloni dai contadini che avevano incontrato, gli fu raccomandato che nel corso della trattativa per ammorbidirlo gli avrebbero dovuto dare del don.  Ma che si guardassero bene di dirglielo all’inizio, perché si sarebbe sentito preso per il culo.
    Detto fatto, i commercianti andati,  i contadini  che se la ridevano si tennero in  osservazione.

    Seduti in cucina attorno a due mezzi tronchi levigati di quercia gigante, tenuti insieme da dardi che ne facevano un bel tavolo, Cristoforo, che non era tirchio, aveva offerto a ciascuno un bicchiere di rosso della botte di casa.
     Sulle condizioni non cedeva. Lui soldi non ne voleva, bisognava pagarlo in natura.

    Andarono fuori tra le bestie che facevano oggetto del negoziato. Spazientito, quello che sembrava condurre l’affare ricordandosi del consiglio ricevuto gli si rivolse:
«Sentite don Cristoforo…»
    Non l’avesse mai detto che si trovò di fronte un bisonte imbestialito e pronto a caricare:
«Cos’avete detto? Via o vi schiaccio come lumache. Il don lo date al vostro parroco o al sindaco ma non a me. Sparite!»
    E mentre quelli si allontanavano alla svelta, lui dietro con i suoi “Via!” li incalzava e obbligava a levare le chiappe sempre più veloci.

«Vanni!»
«Comandate!»
«Domani è fine mese. Appena facciamo verso e mangi, metti nella gabbia due polli, in una coffa una forma di formaggio e impaglia un paniere con uova fresche. Carica tutto sulla bicicletta e portalo a tua mamma. La povera donna non la pensa nessuno. Poi  passa dal salone di barba e capelli ché fra poco non vedi a traverso. Là non devi pagare un centesimo. Devi solo dire: Sono roba di massaru Cristoforo.»
    E Vanni andò, facendo bene attenzione a spingere la bicicletta senza cavalcarla per timore di perdere l’equilibrio e creare un disastro. Cristoforone non avrebbe apprezzato.
    Al salone glielo mandava perché tempo addietro, con le cesoie per tosare le pecore, per poco non gli recideva un orecchio.

    All’ingresso del paese ai due vigili in uniforme intenti a sbavare con qualche donnetta, quasi quasi era sfuggito quando misero mano o bocca, al fischietto.
«Ehi tu! Dove vai?»
«Dite a me?»
«Sì. Dove vai con tutta quella roba?»
«La porto a mia madre.»
«Devi pagare il dazio. Non è che tua madre è esente dal dazio.», e si avvicinarono con matita e calepino. «Paga e passa.»
«Soldi non ne ho! È massaru Cristoforo che mi manda.»
«E chi è questo massaru Cristoforo, un imperatore? O paghi o ti sequestriamo la roba.»

    Quando il ragazzo sentì sequestriamo, a costo di rompere tutto, saltò sulla bici, fece dietro front e se la squagliò.
«Furfante!»,  gli gridarono dietro.
    Arrivò in campagna con le lacrime agli occhi e il cuore grosso. Poggiò la bicicletta contro il muro e sedette su uno scalino con la testa piegata sul petto. Aveva voglia di vedere sua madre e stare un po’ con lei, ma quei due... e ora anche Cristoforone…

    Lo scorse così lui che rientrando per prepararsi un boccone, non credeva ai propri occhi.
«Che ca…o è successo Vanni. Che ci fai qui?»
«Le guardie…, chiedevano il dazio o mi avrebbero sequestrato la roba. E io sono scappato.»
«Uhm!», lisciandosi la barba e riflettendo. «Hai fatto bene!», vociò alzando minaccioso una zampa all’altezza del ragazzo che si sentì perduto mentre l’arto si poggiava pesante ma gentile sulla sua testa.

«Devi avere fame. Libera i polli e dissetali. Domani ti accompagno … Perdita di tempo!», grattandosi la capa. «Dobbiamo alzarci un po’ più presto.»
«Massaru Cristoforo quelli volevano arrestarmi. Quando dissi che era roba vostra risero dicendo e chi è questo massaru Cristoforo, un imperatore?»
«Eh? Arrestare un ragazzo? Dai, vieni a prendere un boccone.»
    
    Il giorno seguente, Vanni bicicletta e lo stesso carico e Cristoforo sull’asina bigia. Un bell’animale vivace e forte che non poteva evitare che  i piedi del cavaliere dondolassero sfiorando quasi il suolo.
«Aspetta che all’ingresso ti sia quasi alle spalle. Voglio proprio vedere che succede.»

«Toh guarda il furfante di ieri che ci riprova. Ma stavolta non ci sfugge.», sbarrandogli il passo. «Allora hai appreso la lezione? Hai i soldi per pagare dazio e ora anche multa?»
«Io soldi non ne ho.», ripeté Vanni che non sapeva che pesci pigliare.
«Ah no! Però ci riprovi, piccolo delinquente. Quand’è così ti sequestriamo tutto e ti portiamo con noi.», adoperandosi.

«Le mani in tasca!», tuonò un boato a una buona decina di metri.
«Ah ! E chi lo dice?»
    Non rispose subito. Li lasciò perplessi e quando gli fu vicino, sceso dall’asina, braccia conserte, si annunciò:
«L’imperatore!»

    A vedersi davanti quel bestione impallidirono ma protetti dall’uniforme si fecero coraggio:
«Noi eseguiamo gli ordini e vi sequestriamo la roba.»
«Voi non sequestrate nulla e io regalo la mia roba a chi mi pare e piace.»

«Ah e chi parla?», fa il più petulante dei due. «Don Ciccio Coppola Storta?»  
    A Cristoforo gli si velarono gli occhi.
    Con la sinistra afferrò al petto quel pappagallino, il compagno accorso in aiuto lo agguantò con la destra e li sollevò insieme all’altezza dei suoi occhi:
«Avete ancora qualche titolo? Dazio sui regali? Arrestare un ragazzo? Ma per chi vi prendete!», e li depose tremanti, piantonandoli con le mani ai fianchi.

    
   Si era formato un crocicchio. Qualche automobile rallentava, l’asina di traverso restringeva la carreggiata.
«Vanni passa da tua  madre. Al salone ci andrai la prossima volta. Io ti aspetto qui.», e rivolto ai curiosi con un vocione che li fece rintanare, «Che c’è? Non siamo a teatro, fannulloni e buoni a nulla. Via!… Voi», ai vigili che smaniavano di sparire , «statevi buoni.»

    Un’auto con quattro passeggeri, infastidita dall’asina, attivò il clacson e a Cristoforo che girò gli occhi, uno dal finestrino abbassato lanciò uno sfottò:
«Ehi tu perché non te ne torni nelle caverne con il tuo asino.»
    Cristoforo si avvicinò, sputò per terra:
«Non voglio insozzare la saliva.», e quando i quattro giovinastri se la risero facendo prova di alzarsi per venire fuori, lui diede uno scossone alla carrozzeria e la sollevò sbilenca su due ruote per poterli guardare in faccia senza abbassarsi. «Volete arrivare o siete arrivati?», i sorrisi spariti e le facce sbiancate, con un tonfo lasciò ricadere il veicolo che non tardò a sparire.

    Ai vigili che oltre allo spavento,  sbigottiti, erano ora due statue di sale:
«Giù le brache!», quelli non arrivavano a capire. «Sì, giù le brache!»
    Eseguirono imbambolati. Cristoforo quando ebbe i pantaloni tra le mani, sfilò i cinturoni, glieli appese al collo, spaccò i pantaloni e li aggiunse a mo’ di sciarpa ai cinturoni.
«Potete andare. Non dimenticate “don Ciccio Coppola Storta e l’imperatore”.»
    
    Prevedendo conseguenze raccomandò a Vanni di rientrare e si recò dall’avvocato che quando apprese l’accaduto se la stava per fare addosso:
«Che diavolo vi salta in mente Cristoforo. In mutande, ma no…», e giù a ridere.
«Beh avvocato, non li ho lasciati nudi e non ho manomesso le giacche.»
«Vedremo. Ho l’impressione che ci andrà di mezzo  una delle mucche. Peccato.»
«Anche due se necessario ma che serva loro da lezione.»
    
    Due giorni dopo il maresciallo dei CC bussa all’uscio dell’avvocato.
«Si accomodi. Mi dica.»
«C’è una denuncia per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni. Dalla descrizione dell’incriminato potrebbe essere uno di vostra conoscenza.»
«Oltraggio? Mi faccia capire?», facendo lo gnorri.
«Sembra che abbia costretto i vigili a restare in mutande.»
«Ma cosa mi racconta…», e giù uno sbotto di sghignazzi.
«Avvocato mi sembra capire che eravate al corrente…»
«Beh sì maresciallo ma volevo sentire la vostra versione. Ora vi espongo i fatti.»

    Dopo avere sviscerato il problema:

«Noi d’ufficio siamo costretti a procedere.»

«Fate pure. Mi permetto di darvi un consiglio: che uno dei vostri sia l’appuntato, quello coi capelli grigi. E che il brigadiere non sia assetato di protagonismo. E attenti a quello che diranno. Massaro Cristoforo ha agito di diritto  e non ha maltrattato nessuno, me ne assumo la piena responsabilità e ne sono garante. Mettetelo pure a verbale.»
«Mai avuto problemi con quel mostro?»
«Quel mostro è l’essere più onesto e buono che io conosca sulla faccia della terra.»

    Cogliendo l’occasione per fare sgranchire i garretti ai cavalli, un graduato e l’appuntato andarono a trovare Cristoforo in campagna.

«Massaro Cristoforo!»
«Chi vi manda quelli di don Ciccio Coppola Storta?»

«Siamo in perlustrazione e ne approfittiamo per scambiare con voi quattro chiacchiere. Vi prendiamo un poco del vostro tempo.»
«Fate bere i cavalli che loro hanno lavorato e legateli alla greppia con il fieno.»

«Dov’è il vostro garzone?»
«Garzone? Io non ne ho.»
«Dai massaru Cristoforo, lo avete. Era quello a cui volevano fare pagare il dazio.»
«Ah… Vanni? Quello non è un garzone. Mi è stato affidato ed è di famiglia. Consideratelo pure come fosse padrone, anche se ancora ragazzo.»

    I due si guardarono in faccia e l’appuntato:
«Vorreste dire che …»
«Sì appuntato. Voi che avete già qualche capello grigio potete capire. Non ho moglie né figli, il ragazzo non ha mai potuto contare su un padre. Sua madre vive di stenti, a chi volete che lasci animali e masseria? Vanni l’ho preso con me per questo.»
    Il brigadiere ascoltava incredulo:
«Posso parlare con Vanni?»

«Potete. Ricordatevi però che io rispondo di lui come e più di un padre.»,  con le mani attorno alla bocca partì un boato, «Vanniiii. Avvicinaaaa!», e rivolto al brigadiere,
«Gli potete andare incontro, viene da quel lato. Ma andateci piano!», poi all’altro, «Appuntato non siete a passeggio. Parlate chiaro.»

«Vi hanno querelato e piuttosto che farvi venire in caserma, con il bel tempo,  siamo venuti noi.»
«Non mi convincete. Non bastava l’avvocato?»

«Proprio lui ce lo ha raccomandato. E noi eravamo curiosi di parlare con  il ragazzo.»

«Fate bene a indagare ma senza rompere uova nel paniere. Ve ne pentireste. Vanni non è un ingenuo ma è un adolescente.»

    Ritornato in compagnia del ragazzo il graduato disse:
«Appuntato per me possiamo andare.»

«Voi non  andate in nessun posto.», fece l’Urano posando a ognuno una mano sulla spalla. «Da massaru Cristoforo nessuno se ne va quando vuole.»
     Il brigadiere fece prova di sganciarsi ma si trovò inchiodato al suolo.
«Calmo giovanotto. I cavalli hanno avuto biada e acqua. Voi siete all’asciutto e non lo faccio per ingraziarmi. Io me ne fotto di voi e delle querele. Entrate a prendere un  boccone.»

«Massaro Cristoforo noi…», fece il brigadiere.

«Voi siete un ragazzo intelligente ma di cavalli non ne capite un cazzo.», cambiando argomento.

«Come sarebbe a dire?», fece quello toccato nel vivo.

«Lavategli l’occhio destro con la camomilla e tenetelo al buio per due giorni. Dovete anche dire al maniscalco che lo zoccolo destro posteriore è ferrato male. E non ponete domande sceme se non volete farmi incazzare. Ora entrate!»


    Sulla via di ritorno, caracollando:

«Appuntato che ne pensate?»
«Vorrei sentire che ne pensate voi, io lo conoscevo.»
«Se tipi del genere ce ne fossero diversi, nei dintorni non ci sarebbero problemi.»
«E se ce ne fossero tanti dovremmo trovarci un’altra occupazione.»

«Lasciare i vigili in mutande…»
«E senza toccarli con un dito.»
«Beh! Li ha agguantati e sollevati in aria. Certo che non auguro a nessuno di capitare nelle sue mani. Mi aveva inchiodato al suolo.»
«E per gli animali, fidatevi. È un dio.»

    Il legale dei vigili deciso a dare battaglia, avvocato, maresciallo e giudice, giravano attorno alla faccenda.
«Giudice! Se quello si ostina con la querela, io espongo denuncia per abuso di potere, eccesso di zelo, minacce e intimidazioni ingiustificate a un adolescente e vediamo chi la spunta.»

«Avvocato, lasciare i vigili in mutande non può passare inosservato. C’è lo smacco all’autorità.»

«Vada per un risarcimento delle brache. In compenso richiedo l’annullamento di tutte le procedure e un richiamo disciplinare ai vigili.»

«Trovate un accordo con l’accusato e il legale della parte che si dice lesa e mettetemi al corrente.»



«Maresciallo, voi e l’appuntato dovete essere presenti. Ho organizzato un incontro presso il legale dei vigili, con massaro Cristoforo.»

«Avvocato, dovremo portarci dietro l’intera compagnia?»

«Ma no! È un Polifemo buono e con due occhi. Sta a noi saperci fare.»

    
Alla data:

«Cristoforo. Vi prometto che aggiusteremo tutto. Voi risarcite le brache e loro ritirano la querela.»
«Avvocato avete la mia piena fiducia.»
    
    Entrarono nello studio.
    Maresciallo e appuntato erano già presenti. L’altro legale piuttosto altezzoso si dava delle arie. Alla vista di Cristoforo stava per aprir bocca ma frenò. Lui si tenne in piedi accanto al suo di avvocato e sedette solo quando l’altro glielo indicò formalmente, per evitare di alzare di molto la testa per guardarlo in faccia.

    Passarono agli atti. Fu letta la denuncia. Poi intervenne il legale di Cristoforo a dire la sua, proponendo un  risarcimento per i pantaloni contro lo stralcio della querela e un avvertimento ai vigili.
    Fu a quel punto che le cose si guastarono.
    L’altro non solo rifiutò l’offerta ma osò inveire contro “quell’energumeno che si prendeva gioco delle autorità credendo di essere un don Pingo Pallino, superiore ai semplici mortali”.

    A quelle parole Cristoforone esplose.
    Calò la destra sulla scrivania che emise un gemito pietoso, prolungato e univoco. Poi con il suo vocione:
«Don Pingo Pallino sei tu e chi ti fece avvocato fasullo. Io sono  massaru Cristoforo!», e giù una seconda mazzata.             
   Questa volta il  botto incrinò e spaccò il mobile che rimase a gambe larghe.
  
    Maresciallo e appuntato si misero le mani ai capelli:
«Ora anche la scrivania, non solo le brache.»

    Il filippico perse ogni alterigia, si fece minuscolo e rintanato nella sua poltroncina bagnò i pantaloni.
«Ci vediamo in tribunale, ma attento a quello che dici. Se ti ripeti distruggo te e il tribunale. Andiamo avvocato.», rivolto al suo legale.
    Non si andò dal giudice. Il legale di Cristoforo ritornò dal collega rimesso dalla pausa pipì e diarrea e gli diede una lezione di diritto e di comportamento, risarcendo solo le brache.
    
    A sera, come sempre, dopo mangiato.
«Forza Vanni, braccio di ferro.»

«È inutile. Vincete sempre voi.»

«Allenati e vedrai. Hai fatto progressi. Devo già impegnare due e non un solo dito.»
«Nella mia mano più di due non ce ne stanno.»


    Gli anni passavano.

«Sei quasi un uomo fatto. Ti piace questo lavoro?»
«Sì massaru Cristoforo.»
«Non vorresti vivere in paese?», fissandolo.

«Sapete quante volte ci ho pensato. Veramente ogni tanto mi sento solo. Non ho compagni, non ho divertimenti, a parte quando sono via per ventiquattrore. Poi magari mentre sto a fare baldoria penso a voi che siete qui da una vita e mi viene il magone.»


«No, Vanni. Non è questo che voglio sentire.»

«Ma vi giuro che è vero.»

«Vuoi bene agli animali, e alla campagna? Non ti senti schiavo?»

«Ora siete voi a rimbambire.»
«Come ti permetti!», allungando la mano per un ceffone che Vanni evita.
«Sono schiavo di me stesso e dei vostri armenti.»


«E già! Dei nostri armenti, dei nostri… Vanni… e fra non molto… dei tuoi armenti.»
    
Silenzio saturo di domande. Poi:

«Co… cosa avete detto?»

«Ho detto!… Sei padrone della metà di tutto, anche se non ne puoi ancora disporre. E tua madre ha diritto a un  sostegno. L’altra metà quando non ci sarò più. Sono stato da avvocato e notaio…»

  

    Il giovane ammutolì. Rimase a riflettere  con le braccia sul tavolo poi si prese la testa fra le mani e pianse.

«Questa, così in segreto, non dovevate farmela!», soffiandosi il naso gli venne a lato e se lo abbracciò. «Mi viene voglia di chiamarvi don Cristoforo.»
«Provaci», alzando minaccioso una zampa, «e di te non troveranno manco le briciole.»


    Si passò la mano sulla fronte, si lisciò la barbaccia e:

«Sono anni che hai faticato senza mai chiedere nulla. E ora “braccio di ferro”!»

«No! Stasera no massaru Cristoforo. Non ce la faccio. Mi tremano le gambe!»

«Non ti trema altro? Concesso! Ma non una seconda volta. Non solo i muscoli, anche il resto deve essere forte. Vedi Vanni, si dice che Cristoforo traghettasse attraverso la corrente di un fiume chi non ce l’avrebbe fatta. Io ho provato a traghettare solo te e spero di esserci riuscito.»

    
   Vanni quella notte non chiuse occhio. Si ripeteva le parole di Cristoforone, non poteva crederci e dubitava che avesse sentito bene.
   Lui senza padre, povero in canna e ora… no! Non era possibile.
    Quando massaro Cristoforo all’alba venne fuori, lo trovò seduto su un muro a fissare l’orizzonte.

«Sarebbe stato meglio se avessi dormito come si deve. E muoviamoci perché fra poco sarà caldo.»

    Era fatto così massaro Cristoforo, non faceva sconti.

    Quando Vanni si diede da fare con Adelina, Cristoforo che prevedeva come sarebbe andata a finire, un giorno si chiuse dentro, aprì la cassetta dove stava impilata in bell’ordine la montagna dei fogli coi nomi delle mucche e il loro valore naturale disponibile.
    
Due settimane ancora e muratori, impalcature, impastatrici, materiali e tutte le diavolerie di un cantiere, invasero parte del baglio, con grande dissenso delle mucche che da un lato guardavano curiose, da un altro lato disapprovavano scuotendo corna e orecchie.  

    Furono costrette ad adattarsi e a osservare dopo qualche mese che un bel viso femminile si affacciasse da un nuovo davanzale e più tardi anche un pupazzetto che presto avrebbero visto tra i loro zoccoli.
    Li sopportavano grazie a Cristoforo e un po’ anche a Vanni che cominciavano a prendere in considerazione.

    Un buon mattino i richiami delle mucche ancora nel cortile, allarmano Adelina:
«Vanni, Vanni! Vieni… massaru Cristoforo…»
    
    Vanni alle grida si precipita trafelato.
    Cristoforo giace supino sulla pietra liscia del baglio, le mucche lo hanno assediato, fiutano, alzano la testa e si danno ai muggiti.

    Vanni si fa largo, gli solleva i dieci chili di capoccia incorniciata di bianco, anche il barbone si è imbiancato. Gli dà qualche schiaffo per rianimarlo, lo chiama, gli versa dell’acqua sul viso:

«Massaru Cristoforo! Massaru Cristoforo!»
    
    Lui apre gli occhi e lo guarda stranito:
«Che diavolo ti viene in mente d’interrompere la mia quiete.»

«Sono state loro», indicando le mucche, «io sono arrivato dopo.»

«Ah queste femmine, vanno subito in panico. Stavo così bene.»

«Ce la fate? Mettetemi il braccio attorno al collo che vi tiro su.»

«Vedi Vanni, il braccio di ferro era necessario.»

    

    Quando gli disse di recarsi dal medico, lo guardò  come se lo vedesse per la prima volta.
«Di che animale parli? Un nuovo incrocio?»
    Non ci fu verso.
  

    Vanni e Adelina lo tenevano d’occhio.
    Volevano che si trasferisse in uno dei loro vani. Niente da fare. Passava però più tempo a occuparsi del piccolo e aveva chiesto ai giovani di procurarsi un libro sui centauri per leggergli qualche brano la sera. Spesso ascoltando si appisolava con il piccolo in grembo, nella comoda poltrona di cuoio che gli avevano fatto fare su misura. 

«A scuola la maestra diceva: tu sei un centauro. Correvo, mai stanco galoppavo come un puledro. La notte, perduto a osservare le stelle, me ne prendeva una gran voglia e approfittando che i miei dormivano, fuori per i campi mi lanciavo in una corsa sfrenata prima di ritornare a letto… Incuriosito, lessi sui centauri e mi chiesi se non avessi  veramente qualcosa di loro. Anzi lo scoprii. L’ho serbato in silenzio, cosciente una volta cresciuto di non potere avere donna per me e, quando non sarò più tra di voi, chissà, guardate pure se un centauro galoppa nella volta stellata.»


    Lo avevano ascoltato attentamente in silenzio e tristi. Il piccolo tra le sue braccia dormiva beato. Lui continuò:
«Il momento arrivato, ormai vicino, non vestitetimi di lusso, non inghirlandatemi. Avvolgetemi in un lenzuolo e copritemi con uno delle cuoia del solaio prima di incenerirmi.»
     
    Tacque.
    Il palmo della sua mano accarezzò i riccioli del piccolo che si accoccolò contro il suo immenso pettorale.
    Destava l’impressione di un nido attaccato a una roccia.
    Respirò profondamente:

«Adelina!»

«Cosa massaro Cristoforo?»

«Fattelo raccontare: Para, paraaa Vanni! … Le scarpe avevano fame…»
  
    E la sua voce si spense per sempre, in un soffio leggero che scosse a lungo le tendine  prima di dileguarsi.


    Erano in sei a trasportarlo a fatica.
    Lui sul petto una lunga treccia di spighe e fieno nella quale erano infilati due splendidi cardi fioriti, smaglianti di luce solare e una rosa vellutata in mezzo.              
    
    Sui cardi si attardavano le api.

    

   Attraversavano il cortile tra due fila di bovini a testa alta e orecchie tese. Le due capobranco sbarravano l’uscita.
    
   Vanni si avvicinò, le accollò ed esortò ad avvicinarsi alla salma.
    
   La fiutarono, mormorarono il loro muuuhhmm grattante e si misero da parte scuotendo corna e orecchie, collo alto e  testa imperiosa.

   Quando il cancello si chiuse dietro il corpo di massaro Cristoforo, i musi contro le sbarre di ferro e del baglio si aprirono, le gole muggirono possenti.

S. C. M.
febbraio/marzo 2020

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