Anni 60 del 1900.
Il mattino in cui Nando andò via, prima di lasciarsi dietro l'ultima casa del paese, uno dei tanti ragazzini sudici e spensierati, correndo dietro la palla, attraversò la strada costringendo l’auto che trasportava lui e la sua malmessa valigia a un brusco arresto. Allo stridere dei freni, una donna, forse la madre del monello, veniva sulla porta di casa e scambiava con l'autista una filastrocca di insulti e minacce, per poi congedarsi con un gestaccio della mano.
Dal marciapiedi il mariolo, ormai al sicuro, faceva le boccacce.
«Paese sconcio e miserabile», brontolò Nando quasi tra sé, «finalmente ti lascio.»
«Beato te che te ne vai.», aveva commentato con rimpianto il tassista, «Troppo vecchio per farlo anch'io.»
Il giovane infatti andava lontano, all’estero.
L’auto lo scaricò alla stazione e il treno che aveva visto e ancora vedrà tanta gente come lui, lo ingoiò e, indifferente, si diede a macinare chilometri su chilometri. A Nando, man mano che i tum-tu-tu-tum sulle rotaie intensificavano il ritmo, cresceva la speranza di realizzare al più presto i suoi tanti sogni.
Fantasticava, beatamente sdraiato nella comoda poltroncina di seconda classe, compiendo in uno stato di quasi incoscienza quei gesti necessari a un tragitto di oltre trenta ore.
Solo alla frontiera la dura voce del doganiere riuscì a scuoterlo dal torpore nel quale era immerso. Stava finalmente per raggiungere la meta desiderata.
Sebbene ventenne, non era stato risparmiato dagli eventi e aveva fatto vere acrobazie per non esserne travolto, finché un giorno, proprio mentre gl'imperversava addosso una tempesta più furiosa delle altre, stufo, decise di piantare tutto e tutti e di trovarsi lontano un'esistenza più pacifica e una vita meno tortuosa e sbilenca.
Ma fu come se il diavolo, nel momento meno opportuno, infilasse coda e corna nel posto più delicato e se la ridesse.
Nel nuovo paese i giorni e i mesi si susseguivano tra difficoltà e ostacoli che mai avrebbe previsto, e Nando si ritrovò come prima a dover fare l’acrobata su un filo ancora più sottile, teso sopra una terra che non era la sua.
Il castello costruito fra tanti sogni, nell’angolo più nascosto del cuore e della propria mente, si rivelò fragile ed effimero. Crollò in un baleno, durò la vita di una libellula.
Straniero agli occhi di tutti e a volte anche di se stesso, quella sera se ne andava, solo come sempre e perduto nei suoi pensieri, lungo una strada che costeggiava un pendio ripido.
Gli vennero in mente le passeggiate per le vie del suo paese, quando, alla vista di un barattolo di latta abbandonato provava un gusto matto nel calciarlo e farlo ruzzolare. Proprio in quell'istante, e chissà perché, gli venne in corpo tanta voglia di ripetere quel gesto. Si fermò a rifletterci.
Scosse la testa, ritornò sui suoi passi, entrò in una drogheria ancora aperta e, dopo avere acquistato una birra in lattina, riprese il cammino. Bevuta la birra, un sorriso amaro seguì lo sguardo sul vuoto ormai inutile che teneva in mano.
“Povero stupido”, gli avrebbe detto beffardo il barattolo, se avesse potuto parlare e indovinando quello che lui aveva in mente, “cosa ti credevi? Ma non è una scusa per prendermi a calci. D'altronde anche tu sei vuoto”.
Nando lo guardò ancora una volta, lo pose al suolo e quasi con disprezzo gli scaraventò un calcio facendogli compiere una parabola prima di toccare terra in fondo al pendio.
Non si accorse del gendarme fino a quando non sentì una mano sulla spalla:
«Il signore ha letto la scritta che vieta di lanciare oggetti giù per la scarpata? Mi spiace, lei è in contravvenzione per aver contribuito a deturpare l’ambiente.»
Nando si voltò appena. Estrasse la somma dalla tasca gliela porse, come un automa ritirò la ricevuta senza staccare lo sguardo dal barattolo semi accartocciato che rotolava a fatica, indeciso se andare oltre o fermarsi definitivamente là dove il pendio terminava.
Rimase a lungo a fissarlo immobile con le mani affondate nelle tasche del soprabito e prima di andare gli disse:
«Mi fai pena a lasciarti laggiù, ma se venissi a recuperarti, stasicuro che non resisterei alla voglia di prenderti nuovamente a calci.»