Santa riapulana!
Potrebbe significare: Santa Diavolona!, da “riapulu”, siciliano locale di diavolo.
Il ruggito del leone o il grugnito del gorilla che dal tono lasciava intuire se allarme o attacco, era di Massaru Vicienzu “ntisu” Mancaredda, Vincenzo Leone all’anagrafe. A dire il vero, anche se non sempre, quel tuono era antifona di scontri con oggetti, animali o persone con cui lui cozzava.
Vincenzo, non era proprio “massaru”. Coltivava qualche ettaro di terra di sua proprietà che garantiva la sopravvivenza della famiglia. Il suo branco si riduceva a una mucca, una cavalla, da una a tre capre, i polli e un cane che non avendo da fare guardia, il padrone bastava, faticava anche ad abbaiare. Massari erano stati i suoi genitori e lo erano i suoi fratelli, lui il terzo dei maschi e per ceto anche “massaru”, ci teneva a non fregiarsi di un “don” dal sapore di sofismo.
Aveva messo su un frantoio a poco più di un tiro di schioppo da quello di mio nonno Peppe “u Crapu”, alias Giuseppe Magro, che assieme a quella diavolona di Litria Cannata, la moglie, erano con lui in rapporto familiare; la vita di campagna ai tempi era vita di comunità con tutti gli aspetti positivi e meno. Coltivare le amicizie, a cui Mancaredda teneva, evitava l’isolamento.
Alla consegna dei pezzi per il frantoio, si dice che Vicienzu avesse trasportato sulle braccia dal carromatto e assestato da solo l’albero a vite della pressa di un metro e sessanta per venti centimetri di diametro di acciaio massiccio. Oltre gli uno e ottanta, per ben centotrenta chili di massa muscolosa, quando arrivava la stagione, per una a due impilate di coffe di olive da frantumare e strizzare, sostituiva la cavalla con gli occhi bendati e stanca di fare girare la macina in pietra lava di parecchie tonnellate.
Forse meno prestante dei fratelli ma più irascibile, se imperversava tempesta, non era raro che qualcuno, abitando vicino, implorasse l’intervento di mio padre perché Massaru Vicienzu, in uno dei suoi raptus, faceva piazza pulita, minacciando di ridurre a un mucchietto di ossa friabili chi non era riuscito a trovare scampo.
Menu “u Crapu”, mio padre, uno e sessantasette con le scarpe, possedeva lo strano potere di ridurre il leone ruggente o il gorilla infuriato a un agnellino.
Non chiedetevi come o perché. Certi comportamenti sfuggono ancora oggi alle menti eccelse che provano a capire come funziona il contenuto della scatola cranica:
- Chi è u fattu Massa’ Vicienzu?
- Nenti ‘mPari (compare) Menu! Cu vui ca’, tuttu passau!-, la mano di uno sulla spalla dell’altro.
Santa riapulana! … e vedevi la figlia Dina alzare i tacchi e squagliarsela di tutta lena prima di vederselo davanti. Il pericolo era reale. Dina seconda moglie di zio Corrado “u Crapu”, fratello minore di mio padre, rimasto vedovo della prima che era sorella maggiore di Dina, non osava rischiare. Il perché tra padre e figlia scorresse sangue guasto non si seppe mai. Corrado rimasto vedovo con un neonato della prima figlia, ne sposò la seconda alla quale Vicienzu minacciava di spezzare il collo sebbene il genero gli fosse sacrosanto. Guai a permettersi di pensare altrimenti.
Forse per motivi di roba o eredità, aveva litigato con fratelli e parenti. Erano volate parole pesanti e minacce. La “roba”, pur non essendo tirchio, era un argomento che metteva Vicienzu in stato di allarme e dava quasi sempre il via alle ostilità. Meglio evitare di parlarne.
Toccati nel vivo e rimuginando vendetta, due baldanzosi “Leoncini” suoi nipoti, armati di attrezzi offensivi per lavorare i campi, si erano messi in testa di impartirgli una lezione. All’atto pratico si scontrarono con “Santa Riapulana” che con un calcio fece saltare il muro del prato a uno e con un manrovescio della sinistra alla “mancaredda”, in fede alla “ngiuria” o soprannome, gli mise l’altro a cavallo.
Terza elementare; dalla Masseria di “Santa Croce di sopra”, vicina alla vallata della Sguerra dove ci eravamo trasferiti due anni prima, per raggiungere la scuola sulla collinetta tra i pini in contrada Villa Vela (SR), avevo da calpestare quasi quattro chilometri di carreggiata cosparsa di buche e pietre. Con la testa tra le nuvole a fantasticare, un ruzzolone o una storta non facevano difetto. Chi ci andava di mezzo erano ginocchia o caviglie. Anche quella volta all’altezza delle grotticelle della Trezzaria, un piede in fallo e un ginocchio scorticato e sanguinante.
Avanzavo piagnucolando non tanto per la ferita ma perché non avevo nessuno a cui rivolgermi per potere condividere l’accaduto. Solo e abbandonato la strada da fare era ancora tanta.
Mi ero appena lasciati dietro i due incavi affumicati (esistono ancora) a lato del cammino e superato la curva, il viso imperlato di lacrime e i moccoli al naso, che mi si fa incontro Massa’ Vicienzu sulla sua morella.
Vedendomi, fermò la cavalla e:
Santa riapulana, picchì ciangi? Chi fu! (perché piangi? che avvenne?)
Mi sono rotto un ginocchio.- intensificando i singhiozzi e mostrando il sangue che colava.
Aspetta!
Massaru Vicienzu era ormai anziano e la mole non l’aiutava ma un ragazzino in difficoltà non poteva essere ignorato, e no: Santa riapulana!
Lentamente, Per scendere fece accostare la cavalla al muro di lato che gli fece da piedistallo e dopo avere estratto dallo stesso muro due pietre calcaree di più o meno due chili ciascuna, sbattendole l’una contro l’altra le frantumò raccogliendo nel palmo della mano un mucchietto di calcio asettico. Io lo osservavo. Ero ormai sotto protezione e avevo dimenticato le ferite.
Poi con passo pesante e insicuro si avvicinò. Riuscì a piegarsi e spargere la polvere sul ginocchio arrestando il sangue e asciugandolo.
- Va! Vattinni a scola. Ora ti passa. (va pure a scuola …)
Quasi traballando riaccostò la cavalla al muro e a fatica, un movimento dopo l’altro, montò:
- “Amuninni” (andiamo)!
Anno Domini 1947 - Santa riapulana! Addio Massa’ Vicienzu.
S.C.M. 28.02.2025